“Poiché io credo che se vivremo ancora un altro secolo […] e se riusciremo, ciascuna di noi, ad avere cinquecento sterline e una stanza tutta per noi; se prenderemo l’abitudine alla libertà e il coraggio di scrivere esattamente ciò che pensiamo […] allora si presenterà l’opportunità”.
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Così scrive nella conclusione di Una stanza tutta per sé, Virginia Woolf nel 1928.
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Leggo e rileggo questo libro a intervalli regolari. La prima volta l’ho avuto tra le mani per l’esame di maturità (avevo scelto di portare la Woolf alla discussione finale con grande sconcerto di tutta la commissione). L’ho riletto all’università quando preparavo la tesi di laurea (un saggio sul romanzo italiano scritto da donne negli anni a cavallo del ’68). L’ho letto ancora dopo aver partorito una figlia femmina (perché anche e soprattutto di questo si parla in questo saggio) e lo rileggo adesso per l’ennesima volta.
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E ogni volta che mi capita di scivolare tra le parole di Virginia Woolf mi si aprono nuovi orizzonti. Mi sembra che, quasi un secolo dopo, lei stesse scrivendo per me, proprio per me le sue riflessioni e le mie idee si propagano come delle onde che si allargano, si moltiplicano e mi fanno crescere di nuovo.
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Il libro si basa su due conferenze tenute dall’autrice presso la Arts Society di Newnham e la Odtaa di Girton sul tema “Le donne e il romanzo”. Ma il tema sarebbe potuto essere tranquillamente “Le donne e la musica classica” o “Le donne e l’arte pittorica” o qualsiasi espressione dell’ingegno umano vi venga in mente.
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Due sono i principali concetti su cui si basa l’analisi della Woolf.
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Il primo è che i romanzi (ma secondo me il discorso vale come dicevo prima per qualsiasi opera dell’ingegno umano vi venga in mente): “non sono ragnatele tessute a mezz’aria da creature incorporee, ma sono opera di esseri umani che soffrono, e sono strettamente legate a fatti grossolanamente materiali come la salute il denaro e le case in cui abitiamo”. E siccome le donne sono sempre state, dalla notte dei tempi, inequivocabilmente più povere degli uomini, se vogliono esprimersi attraverso la scrittura devono prima di tutto disporre di denaro, avere dei soldi che possano dar loro l’indipendenza e sollevarle dalle preoccupazioni materiali.
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L’eredità ricevuta da una zia, ad esempio, in quest’ottica renderebbe alle donne: “la libertà di pensare alle cose per ciò che esse sono” senza dover per forza sottostare alle leggi dell’odio o dell’adulazione.
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Il secondo concetto è che se una donna non dispone di una stanza tutta per sé non avrà mai la libertà di esprimersi senza essere legata alla rabbia, all’odio o all’umiliazione.
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La Woolf racconta di come Jane Austen scrivesse nel soggiorno di casa poiché l’idea che ci fosse una stanza o uno studio tutto per lei era assolutamente inconcepibile. Era costretta a nascondere i suoi manoscritti sotto dei fogli di carta assorbente quando veniva interrotta dalle persone che entravano nel soggiorno mentre lei scriveva.
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“Per Jane Austen vi era qualcosa di disdicevole nello scrivere Orgoglio e Pregiudizio. E dunque, mi chiedevo, Orgoglio e Pregiudizio sarebbe stato un romanzo migliore se Jane Austen non avesse ritenuto necessario nascondere il manoscritto allo sguardo dei visitatori?”.
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Quindi tutta la questione della creatività femminile si riduce a un nocciolo essenziale: del denaro proprio e uno spazio tutto per sé. Due cose che ancora oggi le donne faticano ad ottenere se non con enormi sacrifici; due cose che pregiudicano, secondo la Woolf, la libertà dell’ingegno umano di esprimersi senza sottostare alle leggi della rabbia, della frustrazione, della vergogna; due cose senza le quali un’opera non sarà mai in grado di elevarsi al suo livello più alto e puro.
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Quanto coraggio dev’essere stato necessario per scrivere di queste cose nel 1928? Quanto avrà sofferto questa donna per la sua capacità di capire, vedere, riflettere e dire ciò che pensava? Quanta eredità culturale e politica ci ha lasciato questa scrittrice e intellettuale rivoluzionaria?
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Nel saggio la Woolf si chiede cosa sarebbe accaduto a una ipotetica sorella di Shakespeare se avesse avuto la stessa vocazione artistica del fratello e se avesse voluto seguire il suo talento.
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“Fu la forza del talento che era in lei, da sola, a indurla a compiere quel gesto. Una notte d’estate la ragazza preparò un fagottello con le sue cose, si calò giù con una corda e prese la strada di Londra. Non aveva ancora diciassette anni. […] Come suo fratello, lei possedeva il dono della più viva fantasia per la musicalità delle parole. Come lui, aveva una inclinazione per il teatro”.
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Judith Shakespeare va a Londra perché vuole recitare ma si ritrova a essere messa incinta da un attore impresario e finisce con l’uccidersi. Ecco. Quando ripenso a Judith Shakespeare che scappa di casa per andare a Londra a recitare mi viene in mente l’immagine di Patti Smith (ne ho parlato proprio qui) che negli anni ’70 appena ventenne prende un treno e va a New York decisa a mettere in atto la sua vocazione artistica. E penso che stiamo parlando esattamente di quello che Virginia Woolf aveva in mente quando ha scritto Una stanza tutta per sé.
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“Prendendo vita dalla vita di tutte le sconosciute che l’avevano preceduta, come suo fratello aveva fatto prima di lei, lei [Judith ndr.] nascerà. […] Io sono convinta che lei verrà, se lavoreremo per lei e che lavorare così, anche se in povertà e nell’oscurità, vale certamente la pena”.
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Patti Smith ha potuto diventare una cantautrice e una poetessa perché prima di lei Virginia Woolf ha scritto Una stanza tutta per sé, lasciandoci un’eredità che va non solo custodita ma anche tramandata oserei dire.
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Quindi ragazze, recuperate questo piccolo saggio pieno zeppo di elementi fondamentali sui quali riflettere e leggetelo, rileggetelo, regalatelo alle vostre amiche, figlie, nipoti. Perché ancora oggi c’è tanto da lavorare e come diceva la Woolf (lei che non aveva avuto accesso a un’istruzione accademica in quanto donna): “lavorare così, anche se in povertà e nell’oscurità, vale certamente la pena”.
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